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Divina Commedia - Inferno - Canto IX - Introduzione Critica

Testo Integrale Riassunto Introduzione Critica Parafrasi

I canti ottavo e nono ripropongono le perplessità, i dubbi, i terrori dell’anima di fronte al peccato, una situazione analoga, cioè, a quella in cui Dante si è trovato alla uscita dalla selva. Anche qui tema dominante è quello della umana insufficienza; ma, mentre nei due canti iniziali l’aiuto divino si era concretato in un uomo, Virgilio, poeta e saggio, espressione al tempo stesso di un modello insuperato di civiltà (l’impero romano) e della ragione eterna, pura di specificazioni storiche, qui l’intervento sovrannaturale è assai più diretto e miracoloso: nella persona dell’angelo è infatti sensibilmente prefigurata la Grazia. Ora infatti che l’inferno "alto" , luogo di pena per coloro che peccarono passionalmente, quasi per una sovrabbondanza della forza vitale, ha finito di dare al peregrinante i suoi insegnamenti, ora che alla vista del Poeta appare la fortezza che racchiude il male più grave, I’umanissimo Virgilio, dolce padre, amico e maestro premuroso, guida fin qui sicura, rivela egli stesso la propria imperfezione, i limiti da Dio assegnati all’uomo.Il Vossler ha opportunamente diviso il grande dramma religioso che si svolge dalla metà del canto ottavo fin quasi al termine del nono in quattro atti. Primo atto: l’anima, in quanto non definitivamente acquisita al male, è respinta dai diavoli (Dante è ancora in vita, ha la possibilità di redimersi, non è morto al richiamo della Grazia). Secondo atto: la ragione (Virgilio) tenta di indurre la malizia a riconoscersi sconfitta; ma questa, avvertito il pericolo, fugge. Terzo atto: il male, al fine di prevalere su colui che vuole smascherarlo, evoca le sue forze più pericolose: non le seduzioni esterne alle quali la ragione saprebbe resistere, bensì le angosce interne, i rimorsi (le Furie). L’anima, se assistita dalla ragione, non ha motivo di temerle (Virgilio invita Dante a guardare le Furie e gliele nomina). Essa deve però respingere quella che del male è la tentazione più nefasta, la disperazione (Medusa). Quarto atto: a sconfiggere il male deve intervenire - dopo che l’anima e la ragione si sono impegnate ed hanno compiuto i loro tentativi di resistenza - la grazia divina (il messo celeste).Il nono è fra i canti più ricchi di riferimenti a simboli, leggende e figurazioni della mitologia pagana. Il De Sanctis ha detto che Dante se ne serve come di "materiale di costruzione", nello stesso modo in cui i cristiani del Medioevo si servivano di colonne e ruderi romani per le loro chiese. Ma questa affermazione va in parte corretta: non si tratta di semplice "materiale". Sia pure strappati dal loro contesto storico, gli elementi della cultura pagana conservano nella Commedia qualcosa dei loro antichi significati. In tutto il poema è, infatti, continuamente ribadita la continuità etica e culturale fra mondo precristiano e mondo cristiano, non diversamente da come in San Tommaso e in Sant’Alberto Magno una medesima linea di pensiero congiunge, gerarchicamente graduandole, natura e rivelazione, filosofia greca e Sacra Scrittura, vita morale e santità. Questa fortissima esigenza unitaria, per la quale nessun aspetto del reale viene respinto (la gloria di Dio risplende, per quanto in una parte più e meno altrove, ovunque nell’universo, come è detto nella terzina di apertura del Paradiso), spiega come, per Dante, anche negli dei falsi e bugiardi, assunti in funzione simbolica, brilli qualche idea del divino.La riabilitazione del mondo classico sarà compiuta esplicitamente, senza giustificazioni religiose, dagli umanisti del Quattrocento, ma qualcosa del loro sentire si è voluto scorgere anche in Dante e si è parlato (Sapegno) della "fiducia ingenuamente preumanistica dello scrittore nella validità poetica, e quindi anche simbolica e immediatamente persuasiva, della cultura letteraria consegnata ai grandi poemi classici". Ma il richiamo alle favole mitologiche nella Commedia ha una funzione opposta a quella che svolgerà nella cultura umanistica: la mitologia non viene infatti accolta nell’universo poetico di Dante in quanto elemento evasivo, di fuga dal reale, di nobile distacco dalla condizione del dolore, ma dal Poeta è volta a confermare, oltre ogni differenza di linguaggio e cultura, una verità che non ammette né restrizioni né deroghe né accomodamenti: quella dell’impegno totale e responsabile dell’uomo nel mondo.Tuttavia, se la grande rappresentazione drammatica davanti alla porta di Dite riflette indubbiamente una concezione allegorica, essa la traduce poi in scenografia ed azione. Come le due distese orizzontali, la nera maremma del fango e la fiammeggiante necropoli dell’eresia, ingigantiscono la verticalità delle mura - enormi nel desolato riverbero, quasi di ferro appena uscito dal fuoco - della città del male (un dato reale, un paesaggio medievale urbano, vallo, torri, porte, sentinelle, su cui l’anima fa incombere l’ombra del giudizio di Dio), così due zone di silenzio (i dannati, le loro pene, le loro espressioni di dolore sono passati in secondo piano; l’attenzione del Poeta si volge tutta al "mistero" che ha luogo davanti ai suoi occhi e ha per oggetto il suo stesso destino) isolano nella sua unicità esemplare la scena del decisivo confronto tra le forze del male e il ministro del volere di Dio. L’arrivo del messo si preannuncia sul piano dell’analogia fin dagli inizi del canto ottavo, allorché fuochi nella notte, improvvisi segnali di guerra, introducono una nuova dimensione, allucinata e febbrile, nel poema. Ma, nella sua compostezza plastica e morale, l’angelo mostra di sdegnare le umane trepidazioni. Mentre infatti le forze del bene si misurano con quelle del male in un clima di epopea e intorno all’anima umana si affrontano come eroi dei poemi dell’antichità, Dante nei suoi dialoghi con Virgilio, pieni di reticenze, di curiosità impacciata, dà voce all’umana viltà, nota ai confini del comico, sempre presente, anche nel cuore della tragedia, nella complessità della vita.
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