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Divina Commedia - Inferno - Canto XXI - Introduzione Critica
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Il problema del comico in Dante, impostato dal De Sanctis nei suoi termini essenziali, è stato variamente studiato dai critici. Alcuni hanno preteso - riallacciandolo al modo in cui il Poeta raffigura se stesso in balìa, in un mondo di mostri e di orrori, della propria paura - di individuare nel comico una tonalità di non trascurabile rilievo nell’ordito complessivo del poema. Dante ritrae se stesso in quanto protagonista della Commedia e personaggio tipico (non dunque nei momenti di maggiore accensione, allorché la passione lo porta ad identificare la propria proiezione nel narrato con la propria realtà di autore) come "un uomo di media umanità, rifuggente da ogni atteggiamento eroico, con l’animo aperto ai sentimenti che normalmente commuoverebbero il petto dell’uomo, in quelle circostanze; fra i quali sentimenti deve trovar posto... anche la paura" (Frascino). Nelle forme in cui questa paura si viene atteggiando è stata riscontrata una comicità affine, per alcuni versi, a quella che il Manzoni fa scaturire dal personaggio di Don Abbondio. In questo senso si esprime ad esempio il Torraca nel commentare un passo del canto ventunesimo dell’Inferno. Altri critici, più aderenti alla tesi del De Sanctis, hanno fortemente limitato la presenza del comico nel poema. Per il Parodi Dante è troppo seriamente impegnato in quello che dice per potersi concedere una pausa di disinteressata, serena contemplazione delle umane debolezze; carattere fondamentale del poema è la tensione; più che di tonalità comica occorre parlare di realismo, satira, sarcasmo. Il Pirandello, in un’analisi del primo canto dei barattieri, attira l’attenzione sul fatto che "Dante non può far che Dio scherzi punendo", ed aggiunge: "Non bisogna confondere il sarcasmo, l’ironia, lo scherno, col comico. Che se talvolta comica appare esteriormente la frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai comica l’intenzione del poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica sarà messa lì per ottenere un effetto di più cruda ripugnanza". Il Vossler infine ritiene che, ove Dante avesse, nel regno della malizia, fatto luogo "ad una comicità bonaria e spensierata", sarebbe andato contro quella che è "l’intonazione fondamentale della Commedia, che per tutti i cento canti rimane sempre saldamente etica".
Ora appare evidente - per poco che si abbia dimestichezza con il poema - che le formulazioni del De Sanctis sono in linea di massima esatte, che il riso di Dante è quasi ovunque amaro, si apparenta al ghigno, alla smorfia di dolore, al disgusto, trova la sua espressione nell’ironia crudele, sfocia, in modo ora più ora meno esplicito, nell’invettiva. Ma, per alcuni dei luoghi del poema dove Dante mostra se stesso alle prese con la paura e in particolare per i canti dei barattieri, è altrettanto evidente che la tonalità che prevale è il comico, mentre le forme appassionate e moralmente definite dell’ironia, del sarcasmo, dello scherno sono come messe in ombra. Naturalmente, nel fare menzione del comico a proposito di Dante, non dobbiamo intendere questa categoria nei significati che è venuta assumendo in tempi diversi da quelli del Poeta. Il comico in Dante ha una carica di immediatezza ed una violenza di contorni quali non è dato riscontrare in secoli che hanno sostituito all’interrogazione diretta del reale un gioco di schermi e finzioni, alla ferma constatazione del negativo la fuga in un eliso di armoniche parvenze.
Il Sapegno colloca la comicità dell’episodio dei barattieri nella cornice di un "gusto schiettamente romanico", il Sozzi scorge in essa "un’attenzione piena di curiosità di fronte a quello che sotto l’aspetto filosofico è il mondo della naturalità e della vitalità pura e fine a se stessa, il mondo « politico » nel senso crociano del termine", nel quale i valori non riducibili all’utile individuale sono del tutto ignorati e spietata si afferma la lotta per la sopravvivenza e il successo. Il Del Beccaro, a sua volta, vede nella quinta bolgia, come del resto nel cerchio ottavo preso nel suo complesso, l’antitesi di quel "passato sereno, di patriarcali virtù", verso il quale Dante nostalgicamente si protende e che aspira a veder ripristinato: "La fisionomia del mondo, dei viventi, il mondo del « negozio », è qui più corrente che altrove, quasi che Dante abbia voluto sottintendere una condanna di principio alla preponderante attività degli uomini del suo tempo, al sempre più libero e disinvolto commercio d’una società in fase di espansione". La città della frode, agli antipodi della Gerusalemme celeste, è quindi anche la città dei traffici, dell’attivismo senza scrupoli che ha per fine il guadagno, di quella borghesia razionalisticamente orientata che sarà, alcuni decenni dopo la morte dell’Alighieri, la protagonista del Decamerone. Il quadro dell’arzanà de’ Viniziani (versi 7-15) non è soltanto una miniatura esuberante o meno - a seconda dello schema critico cui viene commisurata - rispetto all’insieme del canto, del quale costituisce il prologo. Esso ha un valore emblematico, rappresentativo dell’intero clima di Malebolge, e dell’episodio dei barattieri in particolare: un operare fervido, disgiunto dalla considerazione di finalità fondate in un ambito morale, ha condotto questi peccatori non a costruire, restaurando il distrutto, ma a distruggere, a perdersi.
Quello che per il De Sanctis è lo stile di Malebolge, la sua «prosa», la sua comicità densa e plebea, scaturisce dalla natura stessa del peccato di frode, radicato, assai più di quelli di incontinenza o di violenza, nell’intersoggettività del vivere sociale: di qui il prevalere dei gruppi sulle grandi individualità isolate e quello della rappresentazione dinamica sulla presentazione statuaria dei personaggi. Tra le specificazioni della frode la baratteria rappresenta, in modo più esplicito delle altre, il principio eversore di ogni ordinamento civile, un germe di anarchia che trova, nell’individualismo indocile dei dieci demoni, la propria persuasiva e sicura misura poetica.
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