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Divina Commedia - Inferno - Canto XXIII - Introduzione Critica

Testo Integrale Riassunto Introduzione Critica Parafrasi

Anche nell’episodio degli ipocriti sarebbe presente, secondo alcuni studiosi (Sannia, V. Rossi), quell’elemento comico che costituisce la tonalità principale dell’intermezzo - fondamentalmente spensierato e alieno dal definirsi nei termini consueti dell’ethos e della religiosità danteschi, pur senza contrastare con questi ultimi - dei canti XXI e XXII. Secondo questo punto di vista la commedia degli ipocriti non ha, né del resto potrebbe avere, dato il carattere dei suoi protagonisti, l’evidenza rude e immediata che caratterizza quella dei barattieri. La comicità di questo episodio richiederebbe, per essere assaporata in tutte le sue sfumature, una lettura volta a cogliere, oltre l’evidenza delle immagini, il sottile gioco di sottintesi che Dante sarebbe riuscito a celare in questa sua pagina e risulterebbe, più che dall’insieme dell’episodio, da una somma di particolari. Questi, illuminandosi a vicenda, sarebbero in grado di svelarci lo stato d’animo con il quale il Poeta avrebbe immaginato lo spettacolo della sesta bolgia e il suo incontro con i due frati Gaudenti. E’ pertanto sui particolari che questi critici hanno fermato la loro attenzione, isolandoli, al fine di legittimare la loro tesi, dal contesto in cui sono inseriti. Per il Sannia, ad esempio, l’invocazione con cui uno dei due podestà bolognesi si rivolge a Dante e Virgilio (tenete i piedi ... ) avrebbe un sapore comico, comico essendo il contrasto fra la sua "smania del pervenire e la tardità forzata" laddove V. Rossi scrive, sempre a proposito di questa invocazione, che "Catalano fa, senza volerlo, la caricatura del suo tartarughesco andare". E’ invece evidente, a chiunque legga questo canto senza preconcetti, che in esso riaffiora solenne, maestoso, reso più grave dal ritmo lento delle terzine - in cui pare riflettersi qualcosa del penoso incedere degli ipocriti - il motivo del sovrannaturale rimasto in ombra nei due canti precedenti e che, tra l’altro, l’invocazione dei versi 77-78, lungi dall’essere caricaturale, è tragica, sconsolata. Come è assurdo il voler riscontrare spunti comici - a meno di definire comica la paradossalità, nella quale si esprime tragicamente una giustizia superiore a quella umana, della condizione dei dannati - nella pena avvilente dei sodomiti del canto XVI, e nel modo in cui alcuni di essi, gli artefici della grandezza di Firenze, parlano del loro stato, altrettanto assurdo è il voler trovare, nell’episodio della sesta bolgia, un’intenzione beffarda o caricaturale non riconducibile a quelle che sono le costanti morali e religiose del pensiero del Poeta. Il motivo del sovrannaturale si manifesta anzitutto nella forma del contrappasso, nella quale appare eccessiva sottigliezza scorgere anzitutto un’espressione di ipocrita ironia verso coloro che in vita fecero dell’ipocrisia la loro arma, la loro abitudine. Considerazioni del genere si saranno forse imposte al Poeta, ma come motivo marginale, come tema astratto: il ritmo e le immagini delle sue terzine le hanno relegate in secondo piano. Nella pena degli ipocriti non sfavilla infatti un atteggiamento ironico - e quindi necessariamente scettico e indulgente - nei confronti delle umane debolezze, ma si afferma, dolorosa, intransigente, una certezza che non conosce remissioni. La grandezza di Dante, qui come altrove, sta nel condividere, da uomo, il dolore dei dannati, senza che per questo la sua fede nella giustizia divina risulti incrinata o scossa. Come nel canto XVI, anche nel XXIII la degradazione dei dannati è suggerita attraverso una metafora che li riduce a strumenti (le bilance) e attraverso la sottolineatura dei particolare fisico considerato a sé (ad ogni mover d’anca... tenete i piedi... all’atto della gola), né diversamente che in quello il sentimento di Dante è di pena per lo spettacolo che si dispiega sotto i suoi occhi e di reverenza per Colui che ne è l’autore. Un acuto lettore di questo canto, il Bertoni, lo ha definito "il canto della stanchezza e della malinconia", rilevando che nell’episodio degli ipocriti "il terrore cede il posto a un senso di scoramento e di pena e al movimento è sostituita una gravosa lentezza" e caratterizzando questi dannati, dopo aver messo in luce la somiglianza del loro castigo con quello dei superbi e degli invidiosi della seconda cantica, come degli "umiliati e vinti, incapaci di pronunziare una parola che provochi ira o disgusto". Sempre per il Bertoni "nel contrasto fra l’impaccio dei dannati e la sollecitudine e la fretta di raggiungere presto i due poeti e nel loro sguardo bieco" non c’è nessun tratto umoristico, "ma piuttosto il segno di un desiderio vano di sollievo e di liberazione in tanta e così penosa costrizione". In termini analoghi si esprime un altro critico, il Bonora, per il quale, tra l’altro, la preghiera rivolta da uno dei due frati Gaudenti a Dante e Virgilio ha "solo il valore di quei suoni che rendono più assorta un’atmosfera di silenzio", per cui nelle loro parole si avvertirebbe "solo la vibrazione della fatica disumana cui sottostanno questi incappucciati". Anche nelle parole che Dante rivolge loro - o frati, i vostri mali... - il Bonora scorge "il medesimo senso di soffocazione" che è caratteristico di tutta la seconda parte del canto: in questa infatti si riflette "quel sentimento dì dolore che non ha voce per esprimersi, quella fatica immensa" che "trovano la loro compiuta figurazione nel versi rallentati, scanditi dalla successione faticosa dei gruppi consonantici", con cui l’episodio degli ipocriti si apre. Il canto XXIII è una pagina caratterizzata da una fortissima unità tonale, nella quale la definizione di una diffusa atmosfera di tristezza, di silenzio, di angosciata rassegnazione prevale sulla caratterizzazione drammatica e psicologica di personaggi e situazioni. Per questo soltanto la critica più recente, non più condizionata dalle premesse che furono proprie degli orientamenti romantici e positivisti, è riuscita ad intenderlo nella concretezza dei suoi esiti espressivi.
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