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Divina Commedia - Paradiso - Canto VIII - Introduzione Critica
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A partire dal Tommaseo un largo filone critico ha voluto vedere nell’incontro di Dante con Carlo Martello una esaltazione dei valori dell’amicizia, sottolineando la ispirazione lirica dell’episodio. Mentre a questa posizione critica si contrappone il severo giudizio del Momigliano (Carlo Martello è una figura "sbiadita"), molti interpreti recenti tendono a leggere il canto ottavo solo in chiave politica, come ideale continuazione del discorso di Giustiniano: in uno Dante ha affrontato il problema dell’Impero e della sua missione, nell’altro tratteggia la figura del sovrano ideale. È sufficiente una breve analisi di queste conclusioni esegetiche per dimostrare che, al solito, la poesia dei canti della Commedia, e soprattutto di quelli del Paradiso, non può essere irrigidita in una formula parziale, che rischia frequentemente di distruggerne la sostanziale ricchezza poetica.Nel Paradiso tutti i valori umani e tutte le care memorie terrene sono trascesi in una visione superiore, per cui essi appaiono non come elementi a sé stanti, ma come momenti che hanno aiutato e aiutano l’ascesa verso Dio. Per questo l’amicizia tra Carlo Martello e Dante si arricchisce del fervore di carità proprio delle anime beate (tutti sempresti al tuo piacer... per piacerti, non fa men dolce...) e, con uno di quei rapidi passaggi ai quali il poeta della Commedia ci ha abituati, si trasforma in severo magistero filosofico-politico, lasciando al breve e dolce episodio di Casella o di Ugolino Visconti tutta la tenerezza e la familiarità dell’incontro fra due amici. Tuttavia, almeno nella prima parte, l’episodio non rinuncia ad una coloritura lirica, perché il personaggio di Carlo Martello appare ben individuato nella sua specifica interiorità, la quale rivela "una malinconia grave e virile, che scaturisce tutta da cose concrete, vive e palpitanti " (Pézard), perché dietro la figura del giovane principe c’è la personalità " potente e appassionata, di una vittima dello stato di cose deplorato da Carlo, delI’exul immeritus Dante Alighieri".Su questa storia personale si può allora innestare la ispirazione politica del canto ottavo e concordare con quanto afferma il Vallone: "Carlo Martello diviene un ideale momento della vita cortese quale Dante intensamente voleva che fosse, l’unico modo sognato ma irrealizzabile con cui l’umanità, per vivere in pace, meta degli imperatori, doveva comportarsi e reggersi..." Il Poeta ha, cioè, modellato sulla figura dell’amico di un tempo un’ideale figura di sovrano, amorosamente sollecito della felicità di tutti (la preoccupazione del bene altrui, anzi, è il motivo costante del colloquio): la metafisica disquisizione intorno all’organico ordine dell’universo sostenuto dall’amore creatore di Dio non intende essere un inno all’armonia del cosmo, ma ha uno scopo pratico: quello di alleviare i molti mali che affliggono il mondo incapace di comprendere le leggi della natura. La capacità di amare che ha bruciato un tempo l’anima di Carlo Martello dietro il folle amore della bella Ciprigna, si è trasformata nell’amore del sovrano verso i suoi sudditi: "di tutti i rapporti umani che l’amore non folle illumina e riscalda, il più alto è quello tra principe e sudditi che forma la sicura base del consorzio civile; fondato sull’amore, cementato dall’amore, perseguente, nell’amore, il fine della felicità terrena di tutti i consociati" (Vaturi).La figura di Carlo Martello è, dunque, pervasa di motivi inerenti alla natura del cielo di Venere, il quale appare perfettamente individuato attraverso un capovolgimento di posizioni terrene: l’amore sensuale di un tempo è diventato ora fulgore di carità, ardente legame delle anime tra di loro e con Dio; privato delle perversioni della ragione e dell’appetito di concupiscenza esso è diventato una delle vie della santificazione. Dante pare insistere, attraverso i discorsi (si vedano anche quelli di Cunizza e di Folco da Marsiglia nel canto seguente) e la rappresentazione di questi beati, sul paradosso dell’amore cristiano, che ha portato alla beatitudine queste anime proprio in virtù di una loro inespressa o invincibile capacità di amare, rilevando il misterioso legame esistente fra l’amore terreno e la beatitudine. Per questo le anime del terzo cielo non sono più ombre evanescenti o umane figure luminose, ma spiriti fasciati dalla loro stessa luce, essi che sulla terra arsero del fuoco d’amore; sono splendori ardenti che nel corpo fiammeggiante del pianeta si distinguono per la maggiore intensità e mobilità della luce come le faville spiccano per il loro scintillio nel fuoco vivo. Esse interrompono il loro celeste tripudio allorché si accorgono del pellegrino che sale attraverso i cieli e desiderose, nel loro ardente affetto, di compiacere Dante, si affrettano verso di lui più veloci di lampi (ritorna l’immagine del fuoco) o di venti. Giova osservare che anche nel terzo cielo, come nel secondo cerchio dell’inferno, il tema amoroso è ambientato nel mondo cortese e cavalleresco (Carlo Martello, Cunizza, Folco da Marsiglia: un dotto principe, una nobildonna, un trovatore). Il Montanari sintetizza chiaramente il significato di questo canto: "Nel cielo di Venere sono le anime che molto sono state soggette agli influssi d’amore: e che dopo aver seguiti questi influssi nel campo degli amori terreni in una sfera di più o meno idealità cavalleresche giunsero al più profondo e completo amore, quello di Dio: è, in qualche modo, anche l’itinerario di Dante; dalI’amore cortese della Vita Nova alla Donna Gentile Filosofia, alla nuova Beatrice teologica della Commedia. Ed è il riscontro al canto quinto dell’Inferno: là dall’amore cortese e cavalleresco alla tragedia del peccato per il prevalere della passione sulla ragione; qua dall’amore cortese alla scoperta del superiore amore di carità, amore di Dio ".
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