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Divina Commedia - Paradiso - Canto X - Introduzione Critica
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L’esordio del canto decimo che fino al verso 33 celebra l’ordine dell’universo sotto l’amorosa guida di Dio, ripete il carattere di sacralità e di meditazione solenne, oltre che la complessità del giro sintattico, di tutto il canto primo. Uno è l’inno proemiale della terza cantica, l’altro è non solo introduttivo dei cinque canti dedicati al cielo del Sole ma anche di tutto il secondo tempo del Paradiso, dove, a differenza delle prime tre sfere, appariranno le anime specificate da qualità totalmente positive. Il Poeta entra in un mondo dove la carità, l’unione e la perfezione dei beati sono ancora più intense (determinandosi esteriormente nella perfezione di un segno: il cerchio, la croce, l’aquila, la scala) ed egli avverte questa nuova ricchezza di spiritualità con intimo godimento di uomo e di poeta, perché, nonostante le negative posizioni della critica romantica a questo proposito, al progressivo arricchimento del suo spirito corrisponde sempre, in Dante, un nuovo arricchimento della sua poesia. Bruciata tutta la materia terrena dei primi tre cieli nel grido profetico di Folco da Marsiglia, il Poeta esperimenta la nuova dimensione paradisiaca e, contemporaneamente, la sua nuova disposizione interiore: "dall’alto ormai, sogguarda; e come la distanza della terra è più grande, non avverte lo sforzo drammatico del distacco. Non che l’astrazione prevalga sulla concretezza: tutt’altro: la realtà, nell’intelligenza dantesca, si domina tanto più fermamente quanto più dall’alto; ma il giudizio, che è d’amorosa sapienza, discende più severo e sereno, con una sovranità pacifica di gesto regale che impartì" (Apollonio). La resa poetica di questa nuova atmosfera avviene, nel canto decimo, attraverso un fiorire continuo, incalzante, di metafore nelle quali è evidenziata al massimo la poesia delle immagini del Paradiso.La distesa rappresentazione ad apertura di canto del mistero della Trinità che crea e regge tutto l’universo è riecheggiata nell’immagine delle onde concentriche dei cieli, le alte ruote, che si distendono allo sguardo rapito della piccola creatura, finché esso viene a posarsi in un punto, là dove convergono tutti i moti degli astri. L’oblico cerchio che i pianeti porta amplia i confini del cielo misterioso al di sopra di un mondo che per vivere ha bisogno di "chiamare" in suo aiuto tutti gli astri. Poi l’inquieta fantasia che ha sollevato il lettore alle alte ruote lo riporta, perché si renda consapevole della sua limitatezza, al suo banco di discepolo. Ma è un riposo momentaneo, prima di intraprendere una ricerca più approfondita (omai per te ti ciba): il Poeta invita ad un banchetto di sapienza, diverso però da quello che aveva preparato, con le sue canzoni e i suoi commenti nel Convivio. Nel trattato era un’indagine intellettuale superbamente sicura di sé, tanto da non ritenere necessaria la dipendenza dalla verità rivelata. Qui " la sapienza è rivelazione che irraggia dall’alto" (Apollonio), è "coscienza di una elezione della Grazia, di un amor divino che... innalza la dignità della creatura", non è più orgoglio intellettuale e scolastico: "al convito della Sapienza... il cibo, anziché sillogistico, è eucaristico". Questo spiega, secondo l’illustre critico, anche la centralità del tema dei canti del Sole, quello della meditazione della vita trinitaria (dal proemio - guardando nel suo Figlio con l’Amore - alla rappresentazione degli spiriti sapienti appagati dalla contemplazione del Padre che mostra loro come spira e come figlia, all’inno del canto XIII - lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, ed in una persona essa e l’umana -). E l’immagine della Trinità spiega il prorompere, a partire dal verso 28, di quelle della luce (con uno scoperto simbolismo: la sapienza è luce che illumina la mente umana e questa luce è irraggiata dalla mente divina e questa sapienza diventa luce d’amore). E’ un luminismo diffuso che si affida allo splendore solare (versi 28-33), allo scintillio, che supera quello dell’astro che le contiene, delle anime beate, alla metafora del Sole-Dio (verso 53), allo splendor delli occhi... ridenti di Beatrice, che prepara Dante ai fulgor vivi che formano la prima corona, all’abile contrappunto di luce e di ombra nella scena notturna dell’alone lunare, finché le anime beate diventano esse stesse ardenti soli. Poiché l’immagine iperbolica costituisce un limite al di là del quale il Poeta non può procedere, l’intuizione della luce trapassa in un’intuizione di suono e di moto e infine in una pausa di immobilità e di silenzio (versi 79-81), finché la poesia riprende, inesausta, il filo del suo immaginare: la scala, il fin della fiala, l’acqua ch’al mar non si cala, le piante, la ghirlanda, gli anni della santa greggia, il serto, il cero, l’orologio che chiama al mattutino, la rota.La fantasia si rifrange su mille oggetti, la vita spirituale si moltiplica in mille direzioni, perché l’animazione etica del Poeta di fronte al tema della sapienza che è conoscenza di Dio, la quale, una volta conseguita, ci lega per sempre a Lui, ha qualcosa di trascinante, qualcosa di inebriante. La dottrina è diventata fede, e la fede si è tradotta in poesia. Proprio questo suo fervore fa si che egli, nel canto dei teologi e degli studiosi, rifugga da ogni didascalismo, da ogni disquisizione scientifica, da ogni punta polemica. Gli piace andar col riso girando su per lo beato serto di quell’ "Atene celestiale" che aveva vagheggiato per i filosofi pagani nel suo Convivio, di quell’aristocrazia della mente che, a differenza di quella degli spiriti magni del limbo, ha trovato in Dio la sua giustificazione e il suo fine. Non ingombrante rassegna, dunque, quella che chiude il canto, bensì epica rievocazione di chi, nella fatica, nelle veglie, nel martirio, ha testimoniato a quali altezze possa pervenire l’umana sapienza quando essa è saldamente avvinta alla Rivelazione e all’amore divino.
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