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Divina Commedia - Paradiso - Canto XXIII - Introduzione Critica
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Secondo il Momigliano, a partire dai colloqui con Cacciaguida fino al termine del canto XXVII, ci troviamo di fronte a una serie di ben coordinati motivi (celebrazione della giustizia nel cielo di Giove, salita nella costellazione dei Gemelli, visione del trionfo di Cristo, della Vergine, dei beati e triplice esame sulle virtù teologali) che mirano alla celebrazione dell’ascesa che ha sollevato il pellegrino sulle miserie della terra e alla consacrazione della sua dignità a salire alla presenza di Dio. Tuttavia il centro di questo ampio giro di scene e di avvenimenti è il canto XXIII, nel quale la consacrazione di Dante è resa mirabilmente solenne dal trionfo di Cristo e di Maria alla presenza di tutte le schiere del paradiso. Questo momento particolarissimo della vicenda spirituale del Poeta non può non richiamare, per complessità di motivi, per altezza e sincerità d’intonazione, un altro momento, ugualmente importante, ugualmente decisivo: quando, nel paradiso terrestre, Beatrice rivolge a Dante l’aspro rimprovero per il suo passato traviamento e Dante, riconosciutosi colpevole, ottiene, alla presenza della Chiesa trionfante, il perdono definitivo e quindi la possibilità di accedere alla gloria celeste.Orchestrato sullo spettacolo che si rivela a Dante nel cielo ottavo, il canto XXIII ha uno sviluppo prevalentemente visivo (quasi una mistica scenografia), nel quale si traduce l’esperienza dell’anima che, opposta alla visione di Cristo, della Vergine, di tutti i beati del paradiso, sperimenta il suo trasalire e il suo venir meno davanti all’ineffabile. All’intensità di queste emozioni fa riscontro, nel Poeta, una stupefatta e smarrita adorazione (versi 42-45; 58-60) e una momentanea rinuncia a qualsiasi volontà espressiva (versi 61-63). A proposito di quest’ultimo fatto si impone un rilievo necessario: le proteste d’impotenza descrittiva da parte del Poeta non sono semplici modi retorici, o, come vorrebbe il Croce, inutili "iperboli negative", ma si caricano di un profondo valore emotivo - gioia e ansia dell’inesprimibile, sgomento della parola che non dice - e culturale. Infatti alle spalle di queste espressioni c’è tutta una "mistica negativa" che, a partire da San Paolo, attraverso la patristica latina (ad esempio Sant’Agostino) e quella greca (ad esempio lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita) fino al mondo medioevale, testimonia questo atteggiamento particolare del cuore e dell’intelletto: di Dio si può parlare solo per via indiretta, attraverso il riconoscimento dell’impossibilità di parlarne. Tale riconoscimento, tuttavia, non comporta, per Dante, una rinuncia assoluta e definitiva, bensì uno sforzo "epico" per conferire una voce, e una voce poetica, a una sovrumana esperienza della propria anima. Per ottenere questo risultato Dante - e lo svolgimento del canto XXIII lo dimostra ampiamente - aveva a sua disposizione un ricco linguaggio metaforico e analogico, anche questo collaudato da una lunga tradizione di mistici e teologi. Il momento in cui l’anima "s’india" nella gloria è cantato - spiega il Getto - "attraverso un perpetuo soccorso di simboli, i quali, lungi da ogni artificiale e intellettualistico allegorismo e sull’autorizzazione delle spontanee metafore della teologia e della mistica, si muovono lungo un’ideale tastiera che va dalle spirituali emozioni relative alla vita dell’intelligenza, alle verità corporee delle figure della luce e del cielo, dei fiori e delle più pure parvenze della terra, ai sensi fantastici della musica e della bellezza, del moto e dell’abisso". Per questo non è possibile definire il canto XXIII solo suggestivo e paesistico come può sembrare a critici di sensibilità crepuscolare, poiché ogni immagine è rigorosamente pensata e costruita. Per il Vossler, ad esempio, il trionfo di Cristo sarebbe simile ad un suggestivo e tempestoso fenomeno naturale, che ha la solennità di una cerimonia sacra, " una festa vertiginosa di luci, di voci, di melodie, di quadri e di pensieri che nei rapidissimi mutamenti non riescono ad attuarsi in forma, una magica fantasmagoria che si può dichiarare in parole, ma non descrivere né farne altri partecipi". Per controbattere tale posizione, basti pensare che per due volte la rappresentazione di Cristo trionfante è resa perspicua mediante la spiritualizzazione di fenomeni naturali (quale ne’ pleniluni sereni... come a raggio di sol che puro mai), il secondo dei quali appare legato ad una osservazione fin troppo attenta e precisa, freddamente analitica. Ma proprio in questi due momenti il Poeta corona il suo sforzo di comunicare, se non una diffusa rappresentazione dell’ineffabile, almeno l’eco, la vibrazione sentimentale che esso suscita nell’animo. Il sentimento che accompagna Dante in questo canto è un’ebbrezza di godimento e di gioia, una gioia fisica e spirituale nello stesso tempo, di fronte a quanto con la battaglia de’ debili cigli egli può osservare e con l’entusiasmo della sua anima può gustare. Secondo il Croce questa luce e questa gioia che il Poeta vorrebbe pensare e rappresentare sono così pure, perfette e sante, così assolute, che si convertono in astrattezza e, come tali, non possono né essere pensate né essere rappresentate. A questa affermazione, che non solo impedisce di afferrare la profonda poesia del canto XXIII, ma preclude la comprensione di tutto il Paradiso, ha risposto egregiamente il Santini: "la luce che illumina il canto non è puro simbolo come altrove. Essa va dal dolce crepuscolo dell’alba e di pleniluni sereni in una notte tempestosa di stelle al fulgore di migliaia di lucerne, al raggio luminosissimo che piove dall’alto, a infiammati candori in immenso armonico disegno dipinto dalla fantasia del Poeta. Se la vista se ne abbaglia, se trema l’omero di Dante sotto il poderoso tema, nulla sen perde dell’effusione di gaudio, che sa valorizzare con arte sovrana dolci ricordi terreni, luci di finestre a rosa di cattedrali gotiche, ampie fiorite primaverili e quanto di più luminoso e prezioso v’ha nell’aiuola terrena".
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