Logo Splash Divina Commedia
Divina Commedia
 
Registrati Dimenticata la password?
*
Divina Commedia - Paradiso - Canto XXV - Introduzione Critica

Testo Integrale Riassunto Introduzione Critica Parafrasi

Un’imponente cultura teologica, che attinge alla Scrittura, alla letteratura patristica e alla Scolastica, sorregge il contenuto della terza cantica. La teologia di Dante è la teologia dogmaticamente definita, che accetta nel suo insieme tutto il complesso di articoli della fede che la Chiesa impone di credere, ma presenta anche un carattere "personale" (che non ne infirma certo la validità), essendo il Poeta portato, dal suo temperamento e dalla sua personalità, ad insistere su un dogma piuttosto che su un altro, a mettere in rilievo determinati rapporti fra le verità di fede, a sottolineare determinate conseguenze che da queste derivano. Intervengono, cioè, nella sua prassi religiosa - e perciò nella sua poesia - motivi preferenziali dettati da una partecipazione sentimentale più o meno intensa: la meditazione della vita dell’anima come movimento ascensionale che ha per suo termine Dio infinito, come dinamico sviluppo che si concluderà nella gloria celeste, è il motivo teologico che raggiunge in Dante un rilievo essenziale, presentandosi come sintesi di tutta la sua spiritualità. L’appassionata celebrazione di questa meditazione è l’animato sfondo poetico del Paradiso, che è l’"epos della vita interiore come esultanza dello spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’eterno" (Getto) e che appare, perciò, pervaso "da un sentimento unico, da un entusiasmo ben definito, da un clima affettivo uguale e preciso". A questo tema fondamentale - la dignità dell’uomo e il suo destino di gloria come figlio di Dio - è strettamente legato un motivo teologico al quale Dante ha già dedicato uno dei canti più belli del Paradiso, il XIV: il motivo della risurrezione dei corpi, la quale perfezionerà il destino di gloria e di beatitudine delle creature. Proprio la risurrezione dei corpi è posta, nel canto XXV, come oggetto della speranza Non solo per questo il canto che stiamo esaminando è fondamentale al fine di capire la personale accentuazione che Dante conferisce alla teologia del suo Paradiso. Se l’esposizione intorno alla fede impegna a fondo le capacità intellettuali e il sapere teologico di Dante (che paragona se stesso al baccellier in attesa dell’esame), quella intorno alla speranza trova il Poeta pronto ad una partecipazione affettiva più profonda. "La speranza è in verità la sua stessa vita. Tutta la sua opera, la sua attività politica, la sua poesia sono nate dalla aspettazione, dall’anelito più ardente verso la pace, la restaurazione. Il poema è la voce della speranza: per una doppia via: perché con esso Dante spera di vincere la crudeltà dei propri concittadini e di essere chiamato, coronato in patria, e perché con esso egli pensa di avviare il processo di riscatto della umanità traviata. In effetti all’inizio del canto - la cui prima parola o, diremmo, la cui chiave, è se - egli dice questa speranza del ritorno in parole commosse, piene di alta fede. Le due speranze sono in qualche modo connesse nel suo animo." (Montano)Così la definizione teologica della speranza (uno attender certo della gloria futura...) si colora delle personali aspirazioni di Dante uomo e poeta, è possentemente nutrita dalla sua coscienza di uomo di giustizia, di interprete del vero, di maestro di spiritualità, mentre il canto acquista la scioltezza e la varietà di una libera conversazione, laddove l’esame della fede si è svolto attraverso una rigida e rigorosa concatenazione di domande e risposte. Scompare anche l’intonazione drammatica che ha contraddistinto il dialogo con San Pietro (la conquista della verità è apparsa, ancora una volta, come una dura lotta dell’intelletto contro difficoltà, obiezioni e contraddizioni di ogni genere): ormai certo che la fede è sostanza di cose sperate, l’animo gioisce nell’attender certo della gloria futura e della dolce vita del paradiso.La lettura del canto XXV può, perciò, fare cadere facilmente l’accusa di astrattezza che la critica romantica ha addensato sul Paradiso o quella di assurdità poetica perché esso vorrebbe essere una rappresentazione del trascendente di cui l’uomo, finché resta sulla terra, non può avere esperienza. Lo stesso De Sanctis, che per primo aveva avanzato quelle accuse, tentava, in un secondo momento, di salvare la poesia della terza cantica cercandola nelle immagini e nei sentimenti terreni che la pervadono (con questa posizione concordava sostanzialmente anche il Croce), per cui la monotonia del Paradiso si disperderebbe solo quando lo sguardo del Poeta si volge verso la terra (allora "il Paradiso si trasforma in una tribuna dalla quale si ammaestra e si riprende; l’ordine divino diviene come tipo e modello delle cose umane") e la teologia assumerebbe valore poetico solo quando viene "rappresentata" e "calata in un contenuto perfettamente determinato" con immagini Tuttavia anche questo contenuto poetico resta, per il De Sanctis, "troppo vuoto di umanità. Dio, gli angeli, i santi, le intelligenze rimangono in un oscuro indeterminato", perché l’Amore entusiastico della pura scienza" troppo spesso prevale e portando il Poeta "negli aridi campi della mistica gli fa dimenticare la terra".Ma il canto XXV dimostra che da ben altra fonte nasce la poesia del Paradiso: da una personale, umanissima meditazione teologica, che, prendendo l’avvio da una sofferta esperienza personale, sale ad illustrare quei momenti " in cui l’anima trema ed esulta nella parentela nuova che con Dio istituisce" (Getto). Perché la speranza terrena - alla quale il Poeta ha affidato le sue più eroiche aspirazioni, il suo bisogno, che è quello di tutte le creature, di dilatarsi nel tempo e nello spazio diviene generatrice di sterili illusioni, immette l’uomo nel cerchio chiuso di un immanentismo destinato a tradirlo e a beffarlo continuamente, se non viene collegata alla speranza sovrannaturale, a quella speranza, cioè, che ha come suo fine e come suo appagamento Dio.
*