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Divina Commedia - Purgatorio - Canto XXVI - Introduzione Critica
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Dopo la sobria energia che ha caratterizzato una delle pagine più ardue, dal punto di vista concettuale, della Commedia - quella riguardante, nel canto XXV, il concepimento dell'essere umano - il canto XXVI si presenta alla nostra attenzione con una ricchezza inusitata di motivi e risoluzioni, per cui riesce problematico il tentare di ridurlo entro una formula critica perentoria ed esclusiva. Ritroviamo in esso il tema dell'amicizia - costante nella seconda cantica, ma di particolare rilievo nel gruppo dei canti che preludono all'incontro del protagonista con Beatrice sulla sommità del sacro monte - al quale appare indissolubilmente legato quello dei problemi attinenti alla poesia, o, più generalmente, all'espressione artistica. Questo tema è affiorato fin dall'inizio del Purgatorio (nell'episodio di Casella) e poi, dopo l'incontro con Sordello, nelle parole pessimistiche, eppur ricche di ritrovata speranza, sulla fragilità di ogni gloria umana (degradata a romore), attribuite a Oderisi da Gubbio. Nella prima parte del canto il tema delle pene redentrici ha un particolare risalto accanto a quelli dell'amicizia e delle memorie letterarie; i quali, nella seconda parte di esso, ripropongono entro una prospettiva più ampia il motivo già introdotto nell'episodio di Bonaggiunta sul conflitto tra i seguaci di un modo di poetare in volgare ancora legato ad una tradizione provinciale, e coloro che, sulle orme del Guinizelli, concepivano, come Dante stesso, il volgare come una lingua non inferiore al latino nella possibilità di modellarlo anche nelle forme dello "stile sublime ". Il motivo delle fiamme che detergono dal peccato di lussuria è denso di implicazioni simboliche (il Roncaglia fa notare come sul tema del fuoco "ch'è tra le metafore più banali dell'ardore amoroso, e che qui in Dante ne diviene l'ovvio contrappasso, insistono... con particolare energia fantastica" sia il Guinizelli sia Arnaldo Daniello nei loro componimenti), ma il Poeta lo sviluppa nel senso di una grande concretezza, conferendo evidenza ad una situazione irreale per mezzo di notazioni che riportano gli aspetti sovrannaturali di questa zona dell'oltretomba all'esperienza più comune che abbiamo della natura. La presentazione iniziale dello spettacolo delle fiamme risulta persuasiva proprio in virtù di particolari realistici (come quelli dei versi 7-8: e io facea con l'ombra più rovente parer la fiamma), mentre, d'altro canto, il mutarsi lento delle tinte del cielo all'ora del tramonto (evocato nei versi 5-6 con quel trionfale raggiando che conferma, nell'attimo della sua imminente sparizione, la forza inesauribile del principio di ogni vita) richiama ai grandi ritmi dell'universo ed impedisce in tal modo che questa poesia, cosi naturale, ceda alle lusinghe del naturalismo. Assolvono sostanzialmente alla medesima funzione - riconducendo alla semplicità di un'esperienza che é di tutti quanto di alto e di elaborato é nelle parole rivolte da una delle anime a Dante (versi 16-24) e in quelle che il pellegrino indirizza alla schiera dei lussuriosi secondo natura (versi .53-66) - anche le similitudini, frequenti nella prima parte del canto: quella delle formiche, cosi lontana dal descrittivismo delle fonti classiche cui il Poeta forse l'attinse, così densa di affetto e carica di rimandi ad una situazione umana (particolarmente nell'ipotesi formulata dall'osservatore circa il motivo dell`ammusarsi": forse ad espiar lor via e lor fortuna); quella che ha per termine di raffronto il volo delle gru, nella quale la tristezza di una separazione traspare in modi che tendono a dar risalto alla coordinazione simmetrica dei movimenti delle due schiere di uccelli (onde, nei versi 44-46, la bilanciata rispondenza, in termini di lessico e di sintassi, dei due emistichi); quella che colpisce in un atteggiamento di vergine stupore il montanaro inurbatosi, e quella esprimente (versi 94-95) in maniera indiretta, "quasi pudicamente, attraverso il filtro d'una reminiscenza letteraria, che, brevemente allusa, permette di non diluire la concentrazione del pathos" (Roncaglia), la devozione filiale di Dante verso il Guinizelli. Nella seconda parte del canto - articolata nei due episodi del Guinizelli e del Daniello - i temi dell'amicizia e della gratitudine per un magistero letterario che agli occhi del pellegrino assunse le dimensioni di un insegnamento morale, di una iniziazione religiosa, si risolvono, dopo le appassionate, intransigenti condanne dei guittoniani, nella limpidità della presentazione che di se stesso fa il trovatore provenzale, nella dolcezza di un inserto arcaico. Quest'ultimo, mentre da un lato testimonia di un tributo di riconoscenza da parte del Poeta verso il rappresentante più cospicuo di quel « trobar clus » che ebbe forse la sua più alta consacrazione nelle sestine delle Rime petrose, dall'altro rende insussistente, in presenza di un dilagante sentimento di carità, il senso dell'isolamento sdegnoso perseguito nella sottigliezza dei costrutti e delle rime che caratterizzò il « trobar clus » medesimo: ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. "Perciò - scrive il Roncaglia - la aspra sensualità e il chiuso stile propri del trovatore perigordino, che Dante ben conosceva ed aveva imitato nelle Rime petrose, cedono il posto a semplici parole di canto e di pianto." Il Sapegno dal canto suo osserva: "L'uso del linguaggio forestiero e aulico, sottolinea il tono distaccato della risposta del trovatore, serve a stilizzare in una formula vaga il contrasto fra l'esperienza terrena e lo stato presente di penitenza, fra le contrite memorie e le luminose speranze; mentre al ripudio delle passioni mondane (la passada folor) s'accompagna, appena accennato, il rifiuto anche di un gusto già caro di rime arcane e chiuse (ieu no me puesc ni voill a vos cobrire)".
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